Napoli, 31 dicembre 2025 – Quando nel 1815 il vulcano Tambora scoppiò sull’isola di Sumbawa, in quella che oggi è l’Indonesia, nessuno poteva immaginare la portata globale di quel disastro. Il 10 aprile di quell’anno, l’eruzione più potente registrata in epoca storica – così la definiscono ancora oggi i vulcanologi – cambiò il clima della Terra e la vita di milioni di persone. Tutto cominciò con una notte illuminata come fosse giorno. Le ceneri oscurarono il cielo per mesi. In Europa, Nord America e Asia, il 1816 passò alla storia come l’anno senza estate. Un evento che ancora oggi emerge nei racconti e negli archivi.
L’eruzione che ha cambiato il clima del pianeta
Il Tambora, un’imponente montagna alta oltre 2.800 metri, esplose con una forza tale da lanciare in aria circa 160 chilometri cubi di materiale vulcanico. Gli esperti dell’US Geological Survey lo classificano come un evento di grado 7 nella scala VEI (Volcanic Explosivity Index), la più alta mai registrata dal Settecento a oggi. Nei villaggi intorno a Dompu e Bima, si contarono almeno 60.000 vittime dirette e indirette: intere comunità furono spazzate via dall’onda piroclastica e dalle colate di fango, mentre la nube tossica avvolgeva risaie e campi.
Ma non fu solo una tragedia locale. La nube di aerosol solforici salì fino alla stratosfera e si diffuse in tutto l’emisfero nord. I meteorologi dell’epoca guardarono con crescente preoccupazione quel fenomeno: il cielo diventava arancione persino nelle campagne inglesi e in New England il sole appariva pallido fino a metà giornata. La temperatura media globale scese di circa 1-2 gradi centigradi: sembra poco oggi, ma bastò per provocare carestie diffuse a causa del fallimento dei raccolti.
Fame, malattie e disperazione
In Europa, la primavera del 1816 fu segnata da piogge senza sosta. A giugno nevicava sulle Alpi e i raccolti marcivano nei campi della Renania. Diari e lettere d’epoca raccontano storie simili: un mercante svizzero scriveva da Ginevra al fratello in Italia che “i contadini pregano solo per una giornata asciutta”. L’estate non portò sollievo: faceva freddo anche ad agosto, i vigneti andarono distrutti. Il prezzo del pane schizzò alle stelle tra Parigi e Berlino, come mostrano i registri conservati negli archivi comunali.
Oltreoceano la situazione non era migliore. In Massachusetts e Maine i coloni spalavano neve a luglio inoltrato. Secondo gli storici dell’Harvard University, nel 1816 le esportazioni agricole americane calarono del 75%. Fame e malnutrizione spalancarono le porte a nuove epidemie: il tifo, documentato dal medico tedesco Johann Reil, si diffuse proprio durante quei mesi estivi anomali.
Anche in Asia le conseguenze furono drammatiche. Le cronache locali parlano di migrazioni forzate: migliaia di persone lungo le coste cinesi abbandonarono i loro villaggi per sfuggire alla carestia. I registri cinesi parlano chiaro: fu “l’anno della fame”, confermando che gli effetti del Tambora coinvolsero tutti i continenti.
Quando il gelo ispirò la letteratura
Le ripercussioni non furono solo economiche o sanitarie. Nei salotti inglesi, durante quell’estate gelida del 1816, Mary Shelley iniziò a scrivere “Frankenstein”, ispirata – ha raccontato lei stessa – dalla “strana luce innaturale” sulle acque del lago di Ginevra. Lord Byron componeva versi cupi sotto le nuvole persistenti: «Il giorno si spense prematuro», annotava nel poemetto “Darkness”.
Fu solo decenni più tardi che la comunità scientifica riuscì a collegare quei cambiamenti climatici all’eruzione indonesiana. Nel 1883 William Jackson pubblicò un saggio nel quale ipotizzava per primo il legame tra cenere vulcanica e mutamenti atmosferici. Oggi gli studiosi del Met Office britannico considerano l’eruzione del Tambora un esempio chiave per capire come i grandi vulcani influenzino il clima mondiale.
Un campanello d’allarme per i nostri tempi
“È la prova che gli equilibri climatici sono fragili”, ha spiegato qualche anno fa il vulcanologo italiano Mauro Rosi, citando proprio il Tambora tra i vulcani da tenere sotto controllo con attenzione. Le ricerche attuali – pubblicate su Nature Geoscience e Science – studiano gli effetti duraturi degli aerosol vulcanici sulla formazione delle nuvole e sulle precipitazioni.
Il Tambora sta lì da più di due secoli, silenzioso ma mai dimenticato; le sue cicatrici sono ancora visibili sul paesaggio di Sumbawa. E nelle pagine dei manuali scolastici resta un monito sulle conseguenze globali che possono scatenare le forze della natura. Gli esperti lo ricordano spesso: “Eventi simili sono rari ma possibili”. Nel 2025, l’ombra dell’anno senza estate è ancora un capitolo aperto nella storia del clima terrestre.
