La copia privata pesa sul prezzo dei dispositivi digitali e ora si allarga anche al cloud: aumenti in arrivo, mentre il mercato denuncia storture e distorsioni.
Pochi sanno che, ogni volta che acquistiamo un device con memoria, dal più moderno smartphone alla più modesta chiavetta USB, in Italia si paga una tassa nascosta: il compenso per copia privata. È un meccanismo che esiste dal 1992, pensato per tutelare gli autori nel caso in cui un utente privato decida di salvare una copia di un brano o di un film già acquistato. Il paradosso? Oggi, con lo streaming che domina il consumo dei contenuti, quasi nessuno salva più copie, ma la tassa è ancora attiva. E nel 2025, è destinata ad aumentare ancora.
Il Ministero della Cultura ha concluso la consultazione pubblica e si prepara ad aggiornare le tariffe con incrementi medi del 20%, e punte che toccano il 40%. Intanto si valuta l’estensione anche ai servizi cloud, con un possibile prelievo di 2,4 euro al mese per utente, pari a quasi 30 euro l’anno. Una misura che solleva forti dubbi, sia sul piano tecnico sia su quello giuridico, poiché i dati archiviati in cloud spesso risiedono su server esterni al territorio italiano.
Smartphone, USB, hard disk: quanto costa davvero la memoria
Il compenso per copia privata viene pagato dai produttori, ma ricade inevitabilmente sul prezzo finale del dispositivo. Per uno smartphone, ad esempio, la tassa varia da 3,90 euro a 6,90 euro, ma con i nuovi aumenti potrebbe arrivare a quasi 10 euro. Non importa che il telefono costi 200 o 1200 euro: la tariffa è fissa, basata solo sulla memoria interna.

I problemi maggiori si registrano sui prodotti più economici: una chiavetta USB da 128 GB, venduta a circa 20 euro, paga già oggi una tassa di 7,50 euro, che salirà a 8,69. Un hard disk da 500 GB, che costa 30 euro, verserà 5,50 euro(attualmente 5), mentre un hard disk da 2 TB toccherà i 20 euro di tassa. E anche un semplice DVD, venduto a 1 euro, pagherà 24 centesimi.
Mario Pissetti, presidente di Asmi (l’associazione dei produttori di supporti multimediali), parla di un sistema obsoleto e iniquo: «Le aziende non hanno più margini. Le tariffe andrebbero ridotte, non aumentate». La proposta di Asmi è chiara: azzerare il compenso per cd e dvd, ormai fuori mercato, e dimezzare quello su tutti gli altri dispositivi.
La tassa sul cloud e i rischi per i consumatori italiani
Il tema più spinoso è quello dell’estensione al cloud. Il Ministero della Cultura sta valutando l’introduzione di un canone mensile fino a 2,40 euro per utente, applicato ai servizi di archiviazione online come Google Drive, iCloud, OneDrive e Dropbox.
Ma l’applicazione pratica è complessa: la localizzazione dei server, la residenza fiscale dei fornitori e l’accessibilità tecnica dei contenuti sono elementi che sfuggono ai confini nazionali. Il rischio è quello di creare doppie imposizioni o di penalizzare gli utenti italiani rispetto agli altri consumatori europei.
Nel frattempo, però, la normativa italiana continua ad apparire sganciata dalla realtà. Anche perché, secondo analisi di mercato recenti, il 90% degli utenti non esercita più il diritto di fare copie private. Non solo: la maggioranza ignora l’esistenza della tassa, mentre le imprese che producono e vendono dispositivi digitali denunciano una distorsione del mercato.
La tassa per copia privata esiste anche in altri Paesi europei, ma con cifre decisamente più basse. Una USB da 256 GB in Italia paga 8,76 euro, in Francia 4 euro, in Spagna 0,24, in Germania 0,30. Un hard disk da 2 TB in Italia paga 20 euro, contro i 6 euro francesi e i 4,44 tedeschi.
Ma non è solo una questione di confronto: secondo i dati raccolti da Asmi, la Siae incassa circa 130 milioni di euro l’anno, ma in base ai volumi di vendita reali i ricavi dovrebbero superare i 600 milioni. Da qui si desume un’evasione superiore all’80%, che si traduce in 123 milioni di euro persi anche in termini di IVA.
Per molti operatori del settore, la normativa italiana favorisce il mercato illegale e spinge gli utenti ad acquistare online da negozianti esteri che non versano il compenso. «Le nuove tariffe – denuncia Asmi – possono arrivare a pesare fino al 150% del valore del prodotto. Una chiavetta da 10 euro può costarne 25 solo per colpa delle tasse».
Una tassa vecchia di 30 anni che non riflette più il presente
Il compenso per copia privata è nato nel 1992, quando i contenuti si registravano su cassette audio e VHS. Con il decreto del 2009, le tariffe sono state fissate in base alla capacità di memoria, ma senza mai essere realmente aggiornate al cambiamento tecnologico.
Nel tempo, lettori CD e DVD sono praticamente scomparsi dalle case, sostituiti da streaming e archiviazione online. Eppure, come sottolinea Riccardo Peretti, titolare della Media Support di Merate, chi lavora con cd e dvd per fini professionali o sanitari è ancora obbligato a dimostrare l’esenzione, con procedure complicate e poco conosciute.
Secondo il Consiglio di Stato e anche la Corte Europea, la normativa italiana è illegittima, ma il governo continua a riproporre gli stessi criteri, ignorando i cambiamenti del mercato.