Il ritorno al nome storico del 1947, secondo Trump, serve a mostrare la forza militare americana. Ma il Congresso potrebbe bloccare tutto.
Donald Trump ha deciso di riscrivere un pezzo di storia americana, e non in senso figurato. In un annuncio che ha già acceso il dibattito politico negli Stati Uniti, il presidente ha dichiarato di voler riportare il nome “Dipartimento della Difesa” a quello originario usato fino al 1947: “Dipartimento di Guerra”.
La scelta, che arriva a pochi giorni dalla grande parata militare organizzata dalla Cina a Pechino, è vista da molti analisti come un gesto di forza, un modo per sottolineare il ruolo centrale dell’apparato militare statunitense in un contesto internazionale sempre più competitivo.
Con questa mossa, Trump intende abbandonare il linguaggio diplomatico e riaffermare l’identità degli Stati Uniti come potenza bellica. «Abbiamo vinto la Prima e la Seconda guerra mondiale con un Dipartimento della Guerra, non della Difesa», ha detto il nuovo segretario designato Pete Hegseth, già definito da Trump “Secretary of War”, in aperta sfida alla retorica del politically correct.
Secondo quanto dichiarato da fonti vicine alla Casa Bianca, il cambio di nome rientra in una più ampia revisione dell’apparato statale, già avviata nei mesi scorsi con il taglio ai fondi di Voice of America, la progressiva chiusura di Usaid e la cancellazione di numerosi programmi di soft power.
Ma se l’intento è chiaro, il percorso istituzionale è tutt’altro che semplice: per essere ufficiale, il cambio deve passare dal Congresso, e al momento Capitol Hill è impegnato su più fronti, dallo shutdown federale alla vicenda Epstein, passando per le tensioni sulle nomine in Corte Suprema.
Il significato storico e politico di un nome: perché “Guerra” fa ancora discutere
Il Dipartimento di Guerra fu istituito da George Washington nel 1789, pochi mesi dopo l’entrata in vigore della Costituzione. Per oltre 150 anni, rappresentò la struttura di comando delle forze armate americane, fino a quando nel 1947, in piena Guerra Fredda, il presidente Harry Truman lo trasformò nel Dipartimento della Difesa, nel tentativo di lanciare un messaggio al mondo: gli Stati Uniti non cercavano conflitti, ma volevano essere pronti a difendersi.
Il nuovo nome rifletteva un cambio di filosofia: dalla guerra preventiva alla strategia deterrente, con un’enfasi sulla diplomazia, la cooperazione internazionale e il contenimento. Oggi, riportare indietro il nome non è solo una questione terminologica, ma un segnale politico forte, che rischia di alterare gli equilibri della diplomazia americana.

Molti storici hanno già criticato l’idea, definendola una pericolosa regressione simbolica. «Porta indietro l’America di 80 anni, rinnegando un secolo di diplomazia multilaterale», ha dichiarato uno dei massimi esperti di storia militare contemporanea.
In realtà, il cambio di nome non comporterebbe modifiche operative per l’esercito, la marina o l’aeronautica. Ma in un’epoca dove i simboli contano quanto le armi, la scelta potrebbe influenzare le relazioni con gli alleati della NATO, con le nazioni del Pacifico e con le stesse istituzioni internazionali.
Un sondaggio condotto a inizio settembre 2025 da un noto istituto americano ha mostrato che il 53% degli elettori repubblicani è favorevole al ritorno del nome “Dipartimento di Guerra”, mentre tra gli indipendenti e i democratici il consenso crolla sotto il 30%.
E mentre il Congresso appare spaccato, con alcuni membri repubblicani che vedono nella proposta una distrazione inutile, altri esponenti del GOP – soprattutto i fedelissimi trumpiani – sostengono l’iniziativa come parte di una più ampia riforma dell’identità americana nel mondo.
Un nome può cambiare la percezione del potere?
In un’epoca in cui l’immagine pubblica di una nazione è costruita tanto con le politiche concrete quanto con i simboli e le parole, la decisione di Trump apre una riflessione più ampia: quanto conta il linguaggio nella geopolitica moderna?
Rinominare il Pentagono non cambierà la struttura dell’apparato militare, ma potrebbe alterare profondamente la narrazione internazionale intorno agli Stati Uniti. In un mondo sempre più multipolare, dove la diplomazia digitale e l’influenza culturale contano almeno quanto i carri armati, scegliere parole bellicose potrebbe spaventare gli alleati e rafforzare i nemici.
Trump ha puntato tutto su una visione forte, netta, senza sfumature. Resta ora da capire se l’America sarà disposta a seguirlo anche in questo ritorno al passato, o se – tra simbolismo e realtà – prevarrà una visione più prudente.